Il cosiddetto “Decreto ILVA”, emanato dal Governo lo scorso 26 giugno, è approdato in parlamento per essere convertito in legge. In questa occasione la maggioranza ha inserito nel testo di conversione un emendamento composto da quattro commi che, se approvato, costituirebbe un attacco gravissimo ai diritti dei lavoratori.
Il primo comma dell’emendamento introduce il principio che, in aziende con più di 15 dipendenti, la decorrenza della prescrizione dei diritti dei lavoratori decorre in costanza di rapporto di lavoro. In parole povere, si riduce il tempo utile per rivendicare eventuali crediti retributivi non riscossi. “Oggi un lavoratore ha tempo cinque anni dalla fine del rapporto di lavoro per richiedere eventuali differenze retributive che non gli sono state precedentemente riconosciute (straordinari non pagati, sotto inquadramento ecc.) e secondo l’attuale orientamento giurisprudenziale, si può retrocedere questo diritto fino al 2007”, spiega Gabriele Viganò, responsabile dell’Ufficio Vertenze Legale della CGIL Lecco. “Con il nuovo emendamento, invece, non si può più attendere la cessazione del rapporto di lavoro in quanto si fa decorrere la prescrizione mentre il rapporto è ancora in corso. E’ evidente che vi possa essere un timore oggettivo nell’intraprendere un contenzioso con il proprio datore di lavoro, a maggior ragione considerato che anche per le grandi aziende non ci sono più le tutele originarie in caso di licenziamento previste dallo Statuto dei Lavoratori del 1970, che garantivano il diritto alla reintegra del posto di lavoro.”
Ma questa norma va addirittura oltre: una volta interrotta la prescrizione, atto che può essere agito anche con una semplice raccomandata o PEC, se non si avvia una causa di lavoro entro i successivi 180 giorni si perde ogni diritto. “Costringere i dipendenti a fare causa al proprio datore di lavoro in costanza di rapporto” continua Vigano’ “significa, nella stragrande maggioranza dei casi, scoraggiarli e impedire di fatto che le domande vengano presentate perché si teme di incorrere in evidenti o malcelate ritorsioni. A parte il rischio massimo, ovvero quello di essere licenziati per motivi insussistenti, è storia nota come il lavoratore spesso venga messo in condizioni di particolare difficoltà: variazione delle mansione o dell’orario, trasferimento di sede di lavoro, fino ad arrivare a situazioni di straining o di vero e proprio mobbing”.
Il terzo e quarto comma dell’emendamento si riferiscono all’adeguatezza della retribuzione ai sensi dell’art. 36 della Costituzione, che – va ricordato – prevede testualmente che “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Il fenomeno del cosiddetto “lavoro povero” è esploso negli ultimi anni in modo dilagante ed è stato oggetto di numerose indagini della magistratura. A questo proposito, l’emendamento proposto stabilisce che, nel caso in cui un giudice dovesse accertare la grave inadeguatezza della retribuzione rispetto a livelli minimi di sufficienza e proporzionalità, il lavoratore non potrà ottenere le differenze retributive maturate prima dell’invio della lettera con cui interrompe la prescrizione, ma solo quelle successive. Un vero e proprio colpo di spugna su tutte quelle cause, alcune ancora in corso, con cui migliaia di lavoratori chiedono un risarcimento per anni di retribuzioni considerate insufficienti a garantire loro un’esistenza libera e dignitosa.
Secondo Diego Riva, Segretario generale della CGIL Lecco, “con questa operazione sarà sempre più difficile tutelare i salari nei casi di crediti retributivi nei confronti del datore di lavoro. Considerando che queste norme sono inserite in un disegno di legge finalizzato alla salvaguardia dei posti di lavoro e ai comparti produttivi, sembra che il Governo voglia sostenere le imprese che fanno competizione sleale consentendo loro di non pagare quanto dovuto. Fatto ancora più grave se si considera che le azioni giudiziarie hanno parallelamente consentito un recupero di centinaia di milioni di euro in fatto di evasione fiscale e previdenziale. Al di là della retorica politica sulle migliaia di posti di lavori creati, ancora una volta siamo di fronte a un tentativo di cancellare alcune conquiste ottenute dai lavoratori negli ultimi anni.”