LAVORO POVERO: DA COSA DIPENDE E COME CONTRASTARLO

La crisi economica causata dalla pandemia e peggiorata dalle conseguenze dall’attuale situazione bellica sta aggravando le disuguaglianze nella distribuzione dei redditi, che hanno subito un’ulteriore polarizzazione rispetto al passato. Il XXI Rapporto Annuale Istat in tema di lavoro e retribuzioni, pubblicato lo scorso luglio, ha messo in luce una situazione drammatica: una quota crescente di lavoratori (ora circa il 23%) percepisce un reddito da lavoro inferiore alla soglia del Reddito di Cittadinanza, pari a 780 euro al mese; oltre 4 milioni di lavoratori hanno uno stipendio orario inferiore a 9 euro lordi; quasi un lavoratore su tre, considerando anche i part-time, guadagna meno di 1000 euro al mese. La povertà, dunque, non è solo una condizione derivata dalla mancanza di un impiego, ma si può essere poveri pur avendo un lavoro più o meno stabile.

Per spiegare quali sono le cause del lavoro povero, e quindi capire come risolvere il problema, è utile partire da una duplice considerazione. La prima riguarda la domanda di impiego da parte delle imprese. Si sente spesso dire che il lavoro c’è, ma le aziende non trovano i profili adatti. Secondo un’indagine condotta da Unioncamere – Anpal, Sistema Informativo Excelsior sulla base delle previsioni di assunzione in provincia di Lecco, tra agosto e ottobre 2022 le imprese private hanno intenzione di contrattualizzare 6830 nuovi dipendenti; di queste assunzioni, più del 40% sono considerate “di difficile reperimento”. Il repertorio di ordinanza che si legge sul cosiddetto mismatch, ovvero il divario tra domanda e offerta nel mercato del lavoro, è che gli studenti si ostinano a disertare le discipline tecnico-scientifiche, i famosi profili di area STEM (Science, Technology, Engineering, Maths). In termini relativi questa tesi ha un fondamento, perché se si paragona l’Italia alla Germania emerge che, rispetto ai tedeschi, il nostro Paese ha la metà dei laureati in ingegneria, la metà dei laureati in economia, un quinto dei laureati in informatica, a fronte di più del doppio di laureati in scienze umanistiche e sociali. Allo stesso tempo, però, la ricerca mostra come per il mese di agosto 2022 solo l’11% delle assunzioni previste riguardi lavoratori laureati (150 su 1330), mentre il 29% si rivolge a possessori di un diploma di scuola secondaria e il restante 60% è destinato a chi ha un diploma professionale o addirittura nessun titolo di studio. La richiesta di profili “high-skilled”, insomma, è meno fitta di quanto si potrebbe attendere, a dispetto dei vari allarmi sulla mancanza di risorse STEM, tanto più se si considera che già nel 2020 il numero di laureati annuali in queste discipline superava le 93mila unità. A conferma di questa tesi, un’altra indagine Anpal relativa ai mercati locali del lavoro evidenzia come lo scorso anno nell’industria lecchese – che è di gran lunga il settore economico più significativo del territorio in termini di occupazione, impiegando circa il 36% della forza lavoro totale – i lavoratori in possesso di una laurea fossero un terzo rispetto alla media degli occupati per settore, mentre quelli in possesso di un diploma o della sola licenza media rappresentavano insieme il 93% del totale. Nonostante ciò, le imprese del nostro territorio denunciano la difficoltà a reperire figure specialistiche in campo informatico, ingegneristico e della produzione. Questo apparente paradosso si spiega con l’elevata “trasferibilità” delle competenze acquisite dai laureati in materie tecnico-scientifiche, per cui le nostre aziende, inserite in un mercato del lavoro che soffre di un divario salariale rispetto agli altri Paesi europei, fanno fatica a competere con le concorrenti esteri e a trattenere talenti (la famosa “fuga dei cervelli”).

Quali sono, dunque, i profili lavorativi più ricercati dalle imprese lecchesi? Le posizioni più richieste riguardano soprattutto cuochi, camerieri e altre professioni dei servizi turistici e operai generici nelle attività metalmeccaniche ed elettromeccaniche. In termini di settore, quello che maggiormente incide sulle assunzioni previste è il terziario (commercio, ristorazione, turismo, servizi alle persone e alle imprese), al quale fanno riferimento il 58% dei nuovi contratti previsti in ambito privato tra agosto e ottobre 2022.

L’altra considerazione riguarda la contrattazione collettiva. Una ricerca della Fondazione Di Vittorio, basata su dati dell’archivio CNEL e delle dichiarazione Uniemens/INPS, ha mostrato che nel 2021 c’erano 992 CCNL in essere, in crescita dell’80% rispetto a 10 anni fa; di questi, solo 246 (25%) erano sottoscritti dalle federazioni di categoria di CGIL, CISL e UIL, che coprono comunque la stragrande maggioranza dei lavoratori dipendenti. I contratti firmati da altre sigle sindacali, di minore rappresentanza sociale, riguardano soprattutto i settori Commercio (255), Enti e Istituzioni Private (79), Edilizia (57), Trasporti (51) e Aziende di Servizi (36), ossia quelli a più alta intensità di lavoro in cui le qualifiche sono più basse e il precariato è più diffuso. La proliferazione dei CCNL rappresenta un aumento dell’offerta delle regole che riguardano il rapporto di lavoro, ed esercita una pressione verso il basso sui salari e sulle condizioni lavorative stabilite nei contratti più rappresentativi.

In base a quanto elaborato si può concludere che la stagnazione dei salari reali, cioè il cosiddetto lavoro povero, dipende anche dalle debolezze strutturali della nostra economia, contraddistinta principalmente da un’alta incidenza delle qualifiche più basse, ma anche da una quota di part-time involontario sproporzionata rispetto ad altri Paesi (in Italia il part-time riguarda il 46% delle lavoratrici, dato più alto dell’intera UE) oltre che da una consistente economia sommersa. I dati analizzati dimostrano come le nostre imprese siano in difficoltà a sfruttare appieno il potenziale dell’offerta di lavoro, soprattutto fra neolaureati e candidati giovani. Il vero mismatch che la struttura produttiva italiana sconta, perciò, riguarda una domanda di lavoro poco qualificata a fronte di un’offerta di lavoro molto più qualificata. Le cause di questo divario vanno ricercate prima di tutto nella dimensione media delle nostre aziende. L’indagine Unioncamere – Anpal evidenzia che, dei 1330 lavoratori previsti in entrata ad agosto 2022, il 56% è destinato a micro e piccole imprese (da 1 a 49 dipendenti): si tratta di realtà che tendenzialmente concentrano la produzione su un unico bene e hanno meno interesse ad assumere candidati di altro profilo; inoltre, dal punto di vista sindacale, nelle piccole realtà la costruzione di forme di rappresentanza è storicamente più complicata, e di conseguenza minore è la diffusione della contrattazione di secondo livello. Un tessuto economico di questo tipo non può che produrre bassissimi livelli di investimento in Ricerca e Sviluppo, settore che garantirebbe la crescita dell’occupazione di qualità.

Quali soluzioni? Da tempo la CGIL avanza alcune proposte, non esaustive del problema ma imprescindibili per il suo superamento. Un primo passo è il contrasto al fenomeno di proliferazione e concorrenza contrattuale, attraverso l’adozione di una legge sulla rappresentanza che definisca i criteri della rappresentatività tanto sindacale quanto datoriale, ed elimini così il problema di contratti pirata sottoscritti da sigle minori, fittizie o di comodo che producono dumping salariale ed erodono i diritti dei lavoratori. Accanto a ciò sarebbe utile l’introduzione di un salario minimo legale, che sia collegato al riconoscimento del valore erga omnes dei CCNL e ne estenda l’efficacia, ridando vigore alla contrattazione collettiva. Infine, è necessaria una massiccia campagna di assunzioni all’interno della Pubblica Amministrazione, che nel nostro Paese è da tempo sottodimensionata in termini occupazionali: la P.A. infatti, oltre a essere il motore dello stato sociale, all’estero viene considerata uno tra i bacini privilegiati per un’occupazione e una retribuzione di livello medio-alto.

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